As Bestas - La terra della discordia

As Bestas 2

Titolo originale: Id.

Rodrigo Sorogoyen non smette di scavare nei più abietti istinti umani e nelle ripercussioni che essi hanno su donne e uomini che ne sono vittime o testimoni. Il suo sesto lungometraggio, inondato letteralmente di premi, non fa eccezione alla regola, dopo “Che Dio ci perdoni”, “Il regno” e “Madre”. Basti osservare con attenzione la sequenza di apertura, di una forza terribile e di una messa in scena impressionante, in cui alcuni uomini – i cosiddetti “aloitadores” – tentano di domare dei cavalli per tagliar loro la criniera. Una tradizione della Galizia, che diviene qui, simbolicamente, una anticipazione al ralenti del soggetto dell’intero film, e un annuncio della tensione che scaturirà dal soffocante conflitto tribale che ne è al centro. Il tutto filmato in primissimo piano, a stabilire il tono del film. Un intreccio implacabile si dipana per le successive due ore e un quarto della durata del film, da cui si esce tesi e contratti. Una coppia di francesi si è installata in un villaggio della Galizia, nel nord-ovest della Spagna. Alla ricerca dell’armonia e del ritorno alla natura, Antoine e Olga praticano l’agricoltura eco-sostenibile e restaurano gratuitamente dei casali abbandonati, per favorire il ripopolamento rurale. Questo fatto non garba però agli autoctoni, perché un progetto di installazione di pale eoliche potrebbe portare dei soldi se tutti fossero d’accordo: ma la coppia francese è contraria. E’ in questo quadro di conflittuali e assai contemporanee preoccupazioni economiche e culturali che il regista inserisce un avvincente thriller agricolo. La morsa si stringe pian piano su una promiscuità umana attentamente esaminata, circondata da paesaggi seducenti di una rustica bellezza. Nella gara a chi è più ostinato, chi la spunterà alla fine? Il conto finale si dimostrerà, in realtà, assai salato per tutti. Assieme alla sua fedele co-sceneggiatrice Isabel Peña, Sorogoyen, di gran lunga il più interessante regista spagnolo contemporaneo, svolge il suo racconto come fosse il filo di un gomitolo perfettamente arrotolato, ed entusiasma per il preciso senso dell’atmosfera e della suspense. Che, in ogni singola sequenza, il pericolo sia reale oppure si avverta soltanto nell’aria, lo schermo cattura e tiene lo spettatore in una tensione costante, a tal punto la fauna umana descritta solletica i peggiori istinti che si celano all’ ombra del vicinato. Il regista crede nella gratuità delle azioni e nell’atrocità come territorio privilegiato dei film. Un realismo privo di qualsiasi magniloquenza si impone in ogni momento, installando una meccanica implacabile e senza possibile ritorno. Sorogoyen si conferma qui un vero e proprio orafo della messa in scena dell’atrocità che si scatena alla luce del sole, che sia essa urbana (“Che Dio ci perdoni”) o rurale, come in questo caso. Gli uomini, sentendosi minacciati nella loro mascolinità, si incazzano e deflagrano come schegge impazzite. Le donne, onniscienti e resilienti, rimangono le guardiane del buon senso. Il quartetto degli interpreti principali è straordinario. Attorno al quartetto, che affascina per la sua lenta e inesorabile mischia mortale, un contorno di secondi ruoli che stupiscono per veracità buona o malevola.