Effetto Notte

Effetto notte 3

Titolo originale: La nuit americaine

“Il problema, amico mio, è che tutti hanno le loro ragioni”, dice Julien Carette a Jean Renoir, mentre i due si allontanano di notte dalla villa dove un delitto è stato appena commesso. E lo afferma con amarezza e una dolorosa tristezza, mentre Renoir guarda fisso di fronte a sé. La villa, l’albergo, due registi che recitano nei loro film. Basterebbe questo forse a creare un legame tra La regola del gioco di Renoir e Effetto notte di Truffaut. Ma il legame è più profondo, fino quasi a spingere l’immaginazione a ripensare il film di Truffaut come riscrittura parziale del capolavoro di Renoir. Riscrittura parziale perché in un certo senso, Effetto notte rivela una profonda possibilità del cinema: quella di costruire mondi in cui si riverberano altri mondi sempre più grandi. L’albergo e il set di Effetto notte sono uno di questi mondi (come lo è la villa de La regola del gioco), un mondo cinematografico, un mondo fatto di cinema. Truffaut lo dichiara sin dalla sequenza della ripresa in campo lungo del set di una città, in cui la costruzione geometrica, coreografica, del mondo diventa concreta. Ogni movimento è studiato, messo a punto, dai movimenti della macchina da presa ai movimenti degli attori, dal protagonista Alphonse (Léaud) all’ultima delle comparse. Un mondo perfetto? No, non un mondo perfetto, ma un mondo vitale. Anche se il cinema crea micromondi, all’interno di essi non cessa di pulsare la vita. Nell’introduzione all’ultimo libro di Bazin, una monografia mai finita (per la morte prematura dell’autore) su Renoir, Truffaut scriveva che ciò che faceva grande il cinema di Renoir era la sua capacità di far trasparire la “familiarità” del mondo nei suoi film. La familiarità non è il realismo, non è la verosimiglianza (concetti troppo astratti se si pensa il cinema come flusso vitale), ma è propriamente la capacità di “sentire” la verità delle immagini, di vivere l’incrocio non calcolabile tra momenti allegri e drammi, ascese e improvvise cadute. Ed è quello che Truffaut riprende in Effetto notte. Il cinema nel suo farsi, nel processo di costruzione del mondo è come un “treno lanciato nella notte” ripete il regista Truffaut ad Alphonse; ed è un treno fatto di pulsioni, desideri, tragedie piccole e grandi. Un attore può morire, dimenticarsi le battute, entrare in crisi per amore, e tutto questo il film lo ingloba, lo rilancia, quasi sotto forma di vibrazioni. Man mano che la lavorazione del film va avanti, gli attori, i tecnici, il regista e la troupe entrano a far parte di un movimento complesso che non può essere deciso e controllato a priori. Rossellinianamente, il film può cambiare di punto in bianco, deviare dal suo percorso e diventare un’altra cosa, a prescindere da ogni geometria, da ogni coreografia del set. Il cinema non allontana dalla vita, ma la fa vivere in un mondo che, come diceva Godard, è un paese in più nella mappa geografica. Dunque Effetto notte non è un omaggio, né un remake de La regola del gioco. Semmai ne è una ripresa, la ripresa di una idea che lo pervade. Un’idea di cinema che è dichiarata, messa in gioco ancora una volta: cinema come mondo in più, in cui recuperare familiarità con la vita che vi scorre dentro, che pervade ogni momento del set, ogni gesto e scelta dei corpi che lo abitano.