I Giganti

I Giganti 3

Avete quarant’anni o poco più. Siete maschi, tutti maschi. Siete in una casa in Sardegna. Una bella casa con bei mobili solidi e i ritratti degli antenati alle pareti. Una casa che una volta si sarebbe detta borghese e oggi è il teatro di un fallimento totale. Personale esistenziale generazionale. Siete con i vostri migliori amici. Quelli che conoscete da sempre. Quelli che sanno tutto di voi e come voi non sanno più che fare della loro vita. Avete un accento sardo perché siamo in Sardegna, ma potremmo essere in Messico, in Argentina, in Turchia, cambierebbe poco. Fuori c’è un paesaggio brullo da western. Più tardi passerà una cometa che nessuno vedrà, in una scena che può far pensare a Beckett, Nanni Moretti o Lars Von Trier, non cambia. Perché anche nelle vostre vite ormai ben poco può cambiare. Compaiono pure delle donne, perché le donne (la loro assenza) sono il centro segreto del film, ma non per molto. «Ci sono persone che dicono una cosa e poi ne fanno un’altra» è il tormentone. Allora perché perdere tempo? Tanto vale farsi. Così, fra ricordi, rimpianti, e rari flashback che spiegano tutto e niente, le droghe scorrono a fiumi. Nessuno si chiede da dove vengano, non importa. Come non importa di che partito sia Piero, il politico, l’unico che “ce l’ha fatta” (chissà come). Né perché si sia portato dietro il fratello Riccardo, che avrà vent’anni e prima si incazza con quei quattro disperati, poi, contagiato, inizia pure lui a farsi e a delirare. Fino a evocare quei Giganti di Mont’e Prama che sono la chiave (antifrastica) di questo inquietante, bellissimo film di Bonifacio Angius, il regista di “Perfidia” e “Ovunque proteggimi”, anche protagonista nei panni di Massimo. Talento appartato e potente, si direbbe, se appartato ormai non volesse dire respinto, emarginato da un mercato sempre più cieco e indifferente. Cercatelo, “I giganti”, bevetelo fino all’ultima goccia, come una dose di ayahuasca che prima dà il vomito e poi lucida consapevolezza, pare. Perdetevi tra i deliri e i bolero (geniale la finta colonna sonora “cubana” dello stesso Angius e di Luigi Frassetto) di questi perdenti assoluti e assolutamente imperdonabili. In cui rispecchiarsi è impossibile ma forse inevitabile. Perché dicono con acutezza perentoria e beffarda poesia ciò che la quasi totalità dei film, mai come oggi, si ingegna a tacere.