La donna del fiume - Suzhou River

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Titolo originale: Suzhou He

Il fiume Suzhou che scorre attraverso Shanghai è un serbatoio di sporcizia, caos e povertà, ma anche un luogo di incontro di ricordi e segreti. Mardar è giovane ventenne che fa il corriere in moto e gira per tutta la città con ogni tipo di pacco per i suoi clienti. Conosce ogni centimetro e ha successo grazie al fatto che non fa mai domande su quello che consegna. Un giorno un losco contrabbandiere di alcol gli chiede di consegnare la figlia sedicenne Moudan a sua zia. Mardar e Moudan si affezionano l'uno all'altro. Ma la loro tenera felicità viene interrotta quando Moudan pensa che Mardar l'abbia rapita per chiedere un riscatto. L’amore come desiderio, ossessione, traguardo impossibile. È questa la Cina che ci racconta il regista Lou Ye. La donna del fiume - Suzhou River è un film del 2000, portato adesso in sala da Wanted Cinema nella versione restaurata che avevamo visto a Berlino. Il risultato è di grande effetto. Lou Ye conosce il cinema occidentale, ma lo reinventa col suo tocco personalissimo. Come altri cineasti della sesta generazione, si concentra sul lato nascosto dell’Oriente. Si sofferma sulla povertà, sui sentimenti che implodono, sul disincanto di una società che vede un futuro fatto di ombre. Al centro c’è il fiume, e tramite il suo scorrere prendono vita storie, miti, leggende. L’incedere delle chiatte e le sirene ci riportano a L’Atalante, a Jean Vigo. Gli scambi dei volti, il ritorno di vecchie passioni che si pensavano finite per sempre, è invece un omaggio a La donna che visse due volte. Ma Suzhou River non è un gioco cinefilo. È un flusso di coscienza, un viaggio nel cuore di tenebra, dove al posto della foresta ci sono enormi strutture di cemento che sembrano poter crollare da un momento all’altro. La disperazione è nell’abbandono, nella voglia ossessiva di non perdersi ma di ritrovarsi prima o poi. Corrieri, malavita, bulli e pupe, in un neo-noir onirico, dove la realtà si mescola alla fantasia. E alla fine l’unico elemento imprescindibile si rivela il ricordo. Il narratore, forse l’alter ego del regista, rivela di essere un fotografo, e Suzhou River è il suo scatto. La provocazione è nell’uso della soggettiva, che costringe lo spettatore a osservare tramite gli occhi di chi ci guida verso il fondo del fiume. Per Lou Ye questa è stata la svolta della carriera. In tutti i suoi film successivi ha messo un po’ di quel corso d’acqua all’apparenza quieto, scosso solo dalle barche. Purple Butterfly, Yihe yuan e Blind Massage mantengono quell’atmosfera disillusa, quella voglia di speranza ormai sopita dal tempo. Anche nel bellissimo An Elephant Sitting Still di Hu Bo c’è un po’ di Suzhou River. L’amour fou si fa struggente, i silenzi sono lancinanti, nella ricerca di una liberazione dalle tinte grigie di tutti i giorni.