Living

LIVING NUMBER 9 FILMS RF 07 07 21 198

Titolo originale: Id.

L’uomo di fronte all’inevitabilità della morte, e la crisi spirituale che può derivarne. E’ il tema al centro del racconto di Lev Tolstoj “La morte di Ivan Il’ič” (1886). Il protagonista ha un male incurabile e inizia a fare un bilancio della sua vita accorgendosi di aver condotto una esistenza artificiale, dominata dall’interesse e da valori borghesi convenzionali. Akira Kurosawa, pur non riconoscendolo mai, si ispirò chiaramente a Tolstoj per il suo capolavoro “Ikiru”, “Vivere”, (1952). L’oscuro burocrate Watanabe (lo straordinario Takashi Shimura), detto “la mummia”, quando sa di avere pochi mesi di vita, si impegna per realizzare, almeno una volta nella sua vita, qualcosa di utile: la costruzione di un parco giochi che lui stesso aveva insabbiato. Ci voleva coraggio per riproporne, oggi, un remake all’altezza. Ci ha provato, riuscendovi, il pluripremiato regista sudafricano Oliver Hermanus, grazie anche a uno sceneggiatore d’eccezione, il premio Nobel per la Letteratura Kazuo Ishiguro (“Quel che resta del giorno”, “Non lasciarmi”). Ci voleva anche un protagonista che non facesse rimpiangere Shimura, ed ecco lo stupefacente Bill Nighy, attore teatrale e memorabile caratterista per cinema e tv. Ishiguro e Hermanus trasportano la vicenda di Watanabe nella Londra del 1953, ma per il resto la fedeltà al film di Kurosawa è assoluta. Il remake giustifica la propria esistenza, e stabilisce dei legami interessanti tra la ricostruzione del Giappone dopo la Seconda guerra mondiale e la situazione difficile della Gran Bretagna dopo la sua “ora di gloria” nel conflitto. Nella prima parte del film lo spento burocrate Mr. Williams (Nighy) apprende di soffrire di un cancro terminale, e quindi si impegna a far sì che i suoi ultimi mesi sulla Terra abbiano un valore, dopo aver trascorso tutta l’età adulta e la vita professionale come un passeggero silenzioso della propria stessa esistenza: in fondo, non è stato tanto diverso da quella pila di pratiche e petizioni che giacciono sulla sua scrivania. Hermanus fornisce una iconografia nuova, più classicamente britannica, per rendere conto di questo. La sceneggiatura di Ishiguro si caratterizza per il suo spirito conservativo, per un certo modo di rimanere nei ranghi, nel senso in cui il trattamento del percorso individuale del protagonista, come del motivo della virtù umana caro a un Frank Capra, riprende alla lettera lo spirito del film originale. Hermanus ha la mano estremamente sicura per quanto riguarda il proprio contributo, soprattutto nell’abilità con cui integra nell’originale in bianco e nero il colore malaticcio e il simbolismo sfavillante tipici dei melodrammi di Douglas Sirk e Noël Coward. Se dobbiamo cercare qui una firma del regista che possa arrivare all’altezza del magistero di Kurosawa è nella disinvoltura con cui Hermanus rende la nozione di repressione, e nella sua fine percezione del modo in cui certe forze, nella loro ruvidezza, possano impedire a chiunque di “vivere” appieno. Dopo essersi impegnato sul fronte della segregazione razziale e dell’omofobia durante l’Apartheid, il regista trova il modo di rendere “Ikiru” seconda versione magari non altrettanto autobiografico ma nondimeno personale. E simile nei due film è la catarsi emotiva del finale, con quel parco giochi innevato costruito da poco sulle rovine della guerra, punto d’arrivo del risveglio emotivo di Mr. Williams come lo era stato di Watanabe.