L'occhio di vetro

Locchio di vetro

IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DELLA MEMORIA

Nel precedente lungometraggio di finzione di Duccio Chiarini, L'ospite, il protagonista Guido, insegnante di lettere, durante una lezione su L'isola di Arturo dice: «Arturo prova per la prima volta pietà per il padre, che preferisce l'irrealtà della messinscena alla complessità della realtà (…) La pietà diventa uno strumento per comprendere a fondo l'altro e, attraverso questa componente, crescere». Quel commento a un passaggio del romanzo di Elsa Morante ha finito per costituire, di fatto, l'indicazione maestra che fornisce il senso di quest'ultimo lavoro di Chiarini, L'occhio di vetro, con cui il regista torna al documentario, forma che attraversa la sua filmografia a partire dagli inizi. L'oggetto che dà il titolo al film è appartenuto al bisnonno del regista, che perse l'occhio destro al fronte durante la prima guerra mondiale; è a partire da quell'evento che si svolge la storia di famiglia sulla quale Chiarini, con l'aiuto dei genitori e di una documentazione copiosa ma tutta da riordinare, conservata nel solaio della casa di famiglia, indaga per cercare di dipanarla e di narrarla nelle sue sfaccettature storico-politiche conservandone la complessità e le apparenti contraddizioni dovute alla forza dei legami affettivi che, anche in presenza di divisioni ideologiche, non cesseranno mai di mantenere uniti i vari “personaggi”. Il tutto muovendo i suoi passi da una tabula rasa costituita dai silenzi parentali illuminati solo fugacemente da qualche immagine (la maglietta ginnica di epoca fascista indossata durante una festa in spiaggia) o ricordo (il saluto mussoliniano tributato al passaggio del carro funebre del nonno). Pur muovendosi da convinzioni politiche democratiche e antifasciste, Chiarini non si tira indietro di fronte al compito di ricostruire i percorsi seguiti dalle due generazioni che lo hanno preceduto nel XX secolo partecipando convintamente e attivamente all'ascesa, all'affermazione e alla disfatta del regime mussoliniano, Repubblica di Salò compresa. L'occhio di vetro diventa poco a poco anche un anomalo racconto di autoformazione condotto in modo determinato, nel desiderio di fare luce senza fermarsi davanti alle rivelazioni più inquietanti o dolorose, ma – e qui torniamo alla cifra interpretativa di partenza – guidato comunque da quel sentimento di pietas in grado di mantenerlo nella  prospettiva (conoscenza ed empatia) capace di fargli comprendere davvero i fatti che man mano riemergono, e il ruolo avuto in essi dai famigliari che vi hanno partecipato e contribuito. Chiarini interroga gli oggetti, i genitori, i luoghi, i ricordi, le parole scritte e quelle riemerse dai ricordi, nel tentativo di dare finalmente espressione al silenzio che lo ha accompagnato nei sui primi anni di crescita, vissuti tra persone tanto amate quanto cariche di una memoria troppo difficile – forse impossibile – da tramandare. Oggetto del documentario è dunque non soltanto la storia della sua famiglia ma anche quella della scoperta di sé come prodotto di tutte quelle vicende.