Un bel mattino

Un bel mattino 01

Titolo originale: Un beau matin

Sandra è un’interprete e traduttrice che vive a Parigi con la figlioletta. Colpita da un lutto che presto scopriremo, divide le sue giornate tra il lavoro, l’accudimento della bambina e le cure al padre Georg, un professore di filosofia debilitato da una malattia tanto rara quanto implacabile. Sandra non sembra abbattuta quanto rassegnata a una vita in cui i sentimenti hanno ormai il carattere di un lutto reiterato. A scombussolare la sua esistenza – scandita dalle interpunzioni degli incontri con la madre, la sorella e la sua famiglia felice, la nuova compagna del padre, anche lei con problemi di salute e impossibilitata a prendersi cura del suo uomo come vorrebbe – è l’incontro con un vecchio amico, Clément, un astrofisico (anzi, un “cosmo-chimico”, come si autodefinisce in più di un’occasione), che le risveglia il cuore e il corpo. L’uomo, in perenne trasferta lavorativa e in sospesa crisi matrimoniale, le riaccenderà un interruttore troppo a lungo spento portandole, con i dolori dei sentimenti, anche una nuova ragione di vita. Le famiglie – meglio se allargate e meglio ancora se colte e consapevoli – e i tormenti emotivi sono da sempre al centro del cinema di Mia Hansen-Løve che riprende, con un’ennesima variazione sul tema, le suggestioni di molti suoi film precedenti, dall’esordio di Tout est pardonné alla riflessione sulla crescita, trasversale alle generazioni, di Le cose che cambiano. Ritrova però in questo Un beau matin l’impulso smaccatamente romantico che caratterizzava Un amore di gioventù, applicando quel senso dolente alle pene d’amore in una maniera più matura, pacata, riflessiva. Il prendersi e lasciarsi di Sandra e Clément si amalgama con una narrazione di un quotidiano in bilico che non conosce enfasi né esagerazione: viene calato anzi in una normalità che restituisce perfettamente le ansie e i dolori di chi ha a che fare con lutti, malattie, senso del tempo che passa e che sfugge. Hansen-Løve, attraverso l’empatia con i propri personaggi, evita ogni sentimentalismo forzato prediligendo un tono apparentemente dimesso che invece lavora come il fuoco sotto la cenere. Sandra riscopre sé stessa anche attraverso un rinnovarsi del dolore, la riscoperta delle pene d’amore, il passaggio definitivo da figlia a madre vissuto osservando sgomenta la malattia paterna, descritta in maniera mai capricciosa bensì umiliante nel continuo andirivieni tra ospizi e cliniche in cui il sempre più malandato Georg viene accolto. L’umanità, variegata e schietta, caratterizza tutti i personaggi: non c’è giudizio nello sguardo di Hansen-Løve, quanto una benevolenza quieta verso chi cerca, nelle difficoltà, un modo semplice di essere felici, coraggiosi, sinceri, responsabili. L’andamento, il placido scorrere di vita e immagini sullo schermo, rimanda a Rohmer e alle sue esemplari narrazioni, esaltate da una profondità mai esposta, quanto suggerita. Ad accentuare questa sottigliezza psicologica, questa mimesi mai fine a se stessa della vita vera, c’è l’ottimo lavoro dell’intero cast, in cui spicca - nella sua ennesima, strabiliante prova di sensibilità attoriale – Léa Seydoux, che cesella i sentimenti di Sandra con un sorriso appena accennato, con un pianto trattenuto a stento, con un semplice ma mai banale movimento degli occhi.