Ennio

Ennio

C’è una sorta di trasversalità che percorre Ennio, il documentario di Giuseppe Tornatore che racconta, sviscerandone quanti più aspetti possibili, la vita di Ennio Morricone, scomparso nel 2020, con cui il regista ha collaborato per quasi trent’anni, instaurando un rapporto amicale di fiducia reciproca. Ed è proprio questa diagonale, non solo narrativa, ma anche storica, geografica, musicale, a guidare lo spettatore all’interno dell’immenso album dei ricordi messo insieme da Tornatore. Seguendo un ordine narrativo che procede cronologicamente (l’infanzia, il padre trombista, il conservatorio e il maestro Petrassi, il lavoro alla RCA fino al provvidenziale incontro col cinema), Tornatore costruisce il suo documentario come una partitura musicale giocata sul contrappunto, come amava fare Morricone. C’è l’intervista-fiume che fa da traccia principale, a cui si intersecano le altre voci, che contribuiscono a costruire, rinsaldare, definire la personalità umana e professionale del compositore. Un insieme composito di interviste, brani musicali, ricordi privati e immagini pubbliche, film e spartiti, parole e filmati. Un grande tributo degli artisti, registi, sceneggiatori, musicisti, attori il cui percorso umano e professionale si è intrecciato, per un lungo o breve periodo, a quello del Maestro: Bernardo Bertolucci, Carlo Verdone, Dario Argento, Hans Zimmer, Quentin Tarantino, Clint Eastwood, Oliver Stone, Nicola Piovani, Marco Bellocchio, Paolo e Vittorio Taviani, Barry Levinson, Roland Joffé, Bruce Springsteen, John Williams, Joan Baez, Quincy Jones e Pat Metheny, tra gli altri. Il tentativo è quello di restituire allo spettatore un’immagine di Morricone quanto più dettagliata possibile, perfettamente tridimensionale. Un uomo che ha avuto la capacità di attraversare le epoche, i generi, le geografie e metterli in dialogo, pur rimanendo ancorato al presente contemporaneo, mantenendo la più assoluta fedeltà a se stesso. E così Ennio è il racconto del divenire, del costruirsi di un’identità, solida e inflessibile, determinata e rigorosa, che ha portato Morricone all’essere isolato ed estromesso dal mondo accademico, in primis dagli amici e dal suo maestro Petrassi, incapaci di vedere oltre l’orizzonte storico, guardando di sottecchi il suo prestarsi alla musica da cinema, tradendo la classica, vera e unica espressione di musica colta. In questo contesto ha giocato un ruolo fondamentale la moglie Maria, che ha accolto e custodito con riservatezza le fragilità di un uomo e un musicista, permettendogli di poter esprimere il suo genio senza dover trascinare con sé le proprie incertezze. Una figura fondamentale eppure così dimessa, in ombra, metafora di un’intimità lasciata sullo sfondo, talmente privata da non potersi prestare nemmeno all’occhio più rispettoso. E la forza del documentario sta tutta nell’intimità del racconto in prima persona, nella commozione che fluisce dal ricordo, con una naturalezza spiazzante, nella memoria di ferro delle divagazioni musicali. Per Morricone comporre musica voleva dire difendersi dalla solitudine, affidando agli strumenti le proprie passioni interiori. Ecco allora che si chiarificano le ombre, che emergono i non detti: la delusione per quegli Oscar non vinti, non futili simboli di un successo mai rincorso, quanto una legittimazione all’esistenza di un uomo che ha consegnato se stesso ad ogni nota scritta.