France

France 3

Titolo originale: Id.

France de Meurs è la giovane giornalista di punta di un canale all-news francese. Conduce approfondimenti giornalieri sull’attualità, modera dibattiti politici e confeziona reportage nelle zone calde del pianeta. È ricca, bella, famosa e invidiata ma la vita privata non è altrettanto felice: con il marito scrittore Fred i rapporti sono garbati ma glaciali e il figlioletto Jojo è viziato, problematico e anaffettivo. Inoltre a France capitano una serie di guai che l’esposizione mediatica cui è soggetta amplificano a dismisura mettendone a nudo le fragilità fino a un punto di rottura e tanto da convincerla a meditare il ritiro. Fin qui la trama, a grandi linee, del film di Dumont. Tuttavia France de Meurs è anche, letteralmente, la “Francia dei Costumi” (laddove “meurs” si legge come “mœurs” che sta per le abitudini o le pratiche sociali comuni di un popolo o di una nazione e quindi appunto i costumi, esattamente come nel latino “mores”). E parla evidentemente – senza nemmeno richiedere troppi sforzi di comprensione della metafora – di qualcuno (o qualcosa) immerso in un mondo di apparenze, che usa linguaggi e modalità di comunicazione manipolatorie per approcciarsi ai propri interlocutori, mentre tutto ciò di cui è fatto e circondato gli si sgretola lentamente intorno. Sì, certo che parla della Francia di oggi Dumont. E sì, certo che lo fa dalla prospettiva dell’informazione “un tanto al chilo”; quella superficiale, mercificata e banalizzante che volgarizza e riduce ogni notizia alla logica dell’intrattenimento. Del resto bastano i pochi minuti dell’incipit – straordinario – per capirlo. Durante una conferenza stampa all’Eliseo vediamo la protagonista seduta fra i giornalisti accreditati rivolgere una domanda piuttosto pungente a Macron in persona e questi – quello vero di cui sono estrapolate immagini di repertorio che inserite nel film con un abilissimo gioco di montaggio danno l’apparenza dell’autenticità – rispondere fra l’imbarazzato e il sornione. Eppure non è (solo) quello lo scopo di un film come France. Perché Dumont è troppo intelligente e troppo abile per adagiarsi su metafore tanto pronunciate. Il regista confeziona infatti un film stratificato, cambia continuamente strada, sovrappone registri e costruisce la narrazione con un taglio fortemente simbolico. France sembra davvero contenere, sotto forma di simboli, tutto il suo cinema precedente. Dalle pennellate grottesche, allo humor nero e via via fino ai volti (Baptiste, il ragazzo investito dalla protagonista o il giovane che fracassa a calci una bicicletta dello sharing comunale), ai luoghi (il Nord in cui France si reca per un reportage) e le situazioni narrative (l’omicidio della ragazzina) ogni cosa ha un legame con i film del passato, da L'umanità fino a P'tit Quinquin. Elemento che suggerisce ancora meglio e a più ampio raggio l’immagine disfunzionale che Dumont ci sta restituendo della Francia contemporanea. Un luogo in cui lo sporco e il mostruoso non sono più relegati alla periferia più marginale e dimenticata, ma sono talmente strutturali alla società da diventarne rappresentazione e addirittura immagine (…).