Il buco

Il Buco 2

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA - VENEZIA 2021

Undici anni dopo Le quattro volte Michelangelo Frammartino riparte da quegli stessi luoghi, dalla stessa terra e dalla stessa luce. Con la consueta pazienza, lo studio meticoloso e la costruzione lenta che caratterizzano il suo cinema torna in Calabria per raccontare una storia antica. O almeno che sembra tale. Perché non ha il respiro millenario e ancestrale de Le quattro volte, Il buco, ma parla di un’Italia e di una storia distanti cinquant’anni che sembrano appartenere però a un passato lontanissimo. Il film immagina la storia del vero gruppo di giovani speleologi che nel 1961 partì dal nord Italia per la Calabria con l’intento di scendere l’allora inesplorato abisso del Bifurto. Dopo settimane di immersione i ragazzi arrivarono a toccare il fondo della grotta a -687 metri, all’epoca la terza più profonda del mondo. Mentre descrive le giornate e le esplorazioni degli speleologi il regista indugia sul paesaggio naturale del Pollino che intorno a loro pare osservarli, percorso dalle consuetudini dei pastori e incastonato dal tempo immutabile della montagna. È un film diviso in due Il buco. Non nel senso di una divisione in parti o capitoli ma in quello di una separazione fra mondi, territori, universi e luoghi dello spirito. A cominciare dall’Italia che rimette in scena: quella del boom economico dei primi anni Sessanta. Nettamente spaccata fra l’industrializzazione galoppante del nord e l’arretratezza del sud. Nelle prime scene si vedono le immagini di una trasmissione televisiva del 1961 sul grattacielo Pirelli appena costruito in cui alcuni giornalisti salgono fino alla cima utilizzando il carello esterno dei lavavetri. È da lì che si parte, dal punto più alto dell’Italia in (ri)costruzione e dal nord del paese si scende verso l’estremo sud e poi ancora più in profondità, nelle viscere della terra. In questo brusco salto spaziale insieme al paesaggio a cambiare è soprattutto il tempo. Perché è un film sul tempo Il buco, un’opera che prova a individuarne le diverse forme e strutture e che proprio attraverso il tempo, anche quello del racconto, costruisce un percorso emotivo e sensoriale. In questo senso il lavoro degli speleologi – donne e uomini che sprofondano verso un confine sconosciuto mappandone man mano i contorni – rappresenta il senso più sottile della riflessione sulla caducità dell’esistenza e sulla fragilità umana di fronte alla natura sottesa al film. Ma questo muoversi attraverso gli opposti, questo costruire il racconto per elementi contrastanti significa per Frammartino lavorare sull’estetica con la consueta, esasperata, meticolosità. Le riprese dentro la grotta, durate per più di due anni e che hanno richiesto un impegnativo addestramento a tutta la troupe, sono stupefacenti. Grazie anche alla fotografia straordinaria di Renato Berta il gioco fra buio e luce, e quindi fra il nero del sottosuolo e l’ocra delle lampade a carburo, diventa il vero tema visivo del film. Il senso di separazione, opposizione e contraddizione fra alto e basso, vita e morte e progresso e tradizione che domina tutto il racconto diventa esplicito fino quasi al didascalismo. Eppure allo stesso tempo ammanta tutto di un fascino arcaico, come la nebbia che scende a coprire lo schermo nel finale del film o come la disciplina speleologica. Che è la ricerca di un limite spaventosamente irrazionale e altrettanto insopprimibile, qualcosa che non si conosce e del quale nemmeno si riescono a vedere i contorni. Proprio come il tempo di una vita, di una generazione o della storia di un’intera nazione.