The Quiet Girl

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Titolo originale: An Cailín Ciúin

Adattamento di un racconto di Claire Keegan pubblicato sul New Yorker e dichiarato il “migliore dell’anno” e poi ampliato e pubblicato come libro da Faber & Faber nel 2010, il film è l’opera prima di finzione di un cineasta autore di premiati documentari. La scelta di un oppressivo formato 4:3 svela da subito la scelta primaria di concentrarsi sul personaggio principale, Cait, la bambina di 9 anni che sconta una situazione di isolamento familiare e scolastico nell’Irlanda rurale del 1981, che il film invita ad abbandonare per aprirsi a un percorso di crescita. La bimba tace, ma il suo silenzio non è quello timido di chi non sa come comportarsi ma quello riservato di chi comprende di non essere accettato dal contesto. L’incipit è emblematico: un prato verde, il movimento della macchina da presa che rivela Cait distesa e seminascosta dall’erba, le voci fuori campo delle sorelle che la chiamano, e poi della madre che chiede se l’abbiano trovata, lei che si alza, si avvicina senza troppa fretta alla casa, entra senza essere notata da nessuno, va nella sua stanza e si rifugia sotto il letto prima dell’arrivo della madre. Lo spettatore vede con gli occhi della bambina i piedi della madre nei pressi del letto, la sua unica frase informa Cait che le sue scarpe sono sporche di fango: è quello l’unico indizio rivelatore della sua presenza altrimenti inavvertita. Cait è un corpo estraneo nell’ambiente sovraffollato in cui si trova, tra sorelle più grandi e respingenti, la madre alle prese con il fratellino più piccolo e una gravidanza in fase avanzata e un padre quasi sempre assente e indifferente alle condizioni precarie e disagiate della famiglia. “Esiliata” in attesa del parto nella fattoria di lontani cugini, una coppia amorevole e curativa che ha già conosciuto l’amore filiale e il dolore della perdita, Cait vi troverà un’atmosfera e un’empatia sconosciute, ma anche scogli e opposizioni che l’aiuteranno a crescere e a distinguere tra segreti che provocano vergogna e altri necessari ad allontanare il dolore. La regia asseconda questo toccante racconto di formazione con un sapiente uso degli spazi e dei movimenti, le inquadrature negli interni delle case strette e spesso delimitate dagli stipiti delle porte per poi tramutarsi nelle scene in esterni in riprese ariose che abbracciano la pienezza della natura. Anche le espressioni corporee cambiano tra dentro e fuori: da piccoli gesti appena accennati si passa a movimenti pieni, liberatori. Il sorriso, quasi del tutto assente dal volto di Cait, può finalmente apparire durante una corsa che profuma di libertà. Il suo silenzio allora, alla fine, diventa nuova qualità d’ascolto. La trama conta poco, conta molto di più il fluire delle emozioni vissute attraverso lo sguardo della bambina. Con alcuni grandi momenti visivi: la contemplazione di una bara aperta, dove una comunità si raduna per la veglia di un amico morto; un improvviso controcampo che fa coincidere il riconoscimento di una paternità non biologica con la sconnessione da una realtà sì famigliare, ma vissuta come aliena. In questo attimo, l’occhio sapiente del regista, allineato con quello della bambina, la rende messaggera della propria interiorità, facendo coesistere protezione e paura, amore e, in profondità di campo, una minaccia che possiamo solo intuire.

Alberto Morsiani