Citizen Rosi

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Comincia male il film, con le parole di Carolina Rosi, secondogenita di “Franco”, come lei era abituata a chiamare il padre, che sembrano comporre un'oleografia celebrativa del genitore e per quanto insista a ripetere “questo non è un documentario su di te” si fa fatica a crederle: ad aprire il film, infatti, è una presentazione del regista, fatta dalla figlia, che lo racconta così: “Era alto, maestoso, dava sicurezza...era la mia vetta”. Questa volontà, però, di rivendicare, fin da subito, un punto di vista personale deve metterci in guardia rispetto al pregiudizio iniziale: esponendosi in prima persona, Carolina dichiara implicitamente di non voler eseguire un ritratto “ufficiale”, ma il suo progetto non vuole neppure essere un ritratto privato. Se lei è presente è perché è stata testimone di un desiderio irrealizzato del padre che ora prova ad avverare: quello di rimettere mano ai suoi lavori e utilizzarli come un archivio per mezzo del quale tracciare una controstoria dell'Italia. Rosi, con le sue strutture a inchiesta costruite sul modello degli enigmi wellesiani, ha fatto del film un mezzo di investigazione della vita politica e sociale. Ecco allora che titoli come Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei o Lucky Luciano non rimangono solo capolavori indelebili della memoria ma vengono smontati e fatti dialogare tra di loro attraverso una narrativa interattiva, resi contenuti manipolabili di un unico grande data base. Qui più del risultato va premiato il gesto, un gesto registico che dà modo a un'idea di cinema di non calcificarsi in una forma data ma di continuare a trasformarsi.

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