Final Portrait

Final Portrait

L’artista svizzero Alberto Giacometti  gode di successo indiscusso, ma questo non lo distoglie da una vita disordinata, sempre ai limiti della decenza e dell’igiene. Giunto nella capitale francese, lo scrittore americano James Lord gli commissiona un proprio ritratto. L’uomo pensa sia questione di pochi giorni ma – data la natura mercuriale di Giacometti – l’opera diventerà un’impresa nel tempo e nella pazienza del giovane. Dopo una ventina di giorni Lord ripartirà con il quadro, rimasto inevitabilmente incompiuto.  L’intenzione di Tucci è evidente fin dalla prima inquadratura, incorniciata nel bianco di una personale sull’artista dove egli compare seduto in atteggiamento depresso ai piedi del suo cognome autografato sulla parete: ciò che apparirà sul grande schermo è il tentativo di catturare un frammento del classico binomio contraddittorio di genio riconosciuto e impenitente sregolatezza. Giacometti si rivela nello sguardo di Tucci quale creativo totale, artigiano maniacale e paranoico, instabilmente lucido e maledettamente inaffidabile come uomo. Il contraltare è l’eleganza ordinata del borghese moderno, dello yankee bello come un top model, vera e propria stravaganza nel Caos ontologico dell’atelier giacomettiano.

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