Perfect Days

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Titolo originale: Id.

CANDIDATO OSCAR MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE

Si chiama Hirayama, proprio come il protagonista dell’ultimo film di Ozu, Il gusto del sakè. Lavora come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. Conduce una vita abbastanza abitudinaria. Parla pochissimo e ha una grande passione per la musica, i libri e gli alberi che ama fotografare. Wenders segue il suo protagonista, dove l’interpretazione da Palma come miglior attore di Kôji Yakusho crea con il suo personaggio un’intimità nascosta. Diventa il punto d’incontro tra il cineasta e quello che sta filmando. Si esprime quasi esclusivamente con il linguaggio del suo corpo. Prende per mano un bambino che ha perso la madre. Ripete quotidianamente i suoi gesti come quello di farsi la barba la mattina. Trova corrispondenze con sconosciuti come il foglietto della partita a tris in bagno. Cerca la bellezza anche guardando la partita di baseball in tv mentre mangia. Attraverso Hirayama, Wenders trova con una semplicità sconvolgente la poesia del quotidiano, in uno dei suoi film più belli e liberi di sempre. È una specie di Hulot che si ritrova in un futuro a cui è estraneo proprio come l’alter ego di Tati in Playtime ma comunque ci convive. I suoi legami non solo con il suo passato ma proprio con la sua storia personale riemergono con una copertina di un libro di William Faulkner, le musicassette di album come quelle di Lou Reed (Transformer), Patti Smith (Horses), sogni in bianco e nero che sono forse le zone d’ombra, proprio come quelle oniriche del cinema di Truffaut. In Perfect Days c’è un documentarismo soggettivo, con tracce del cinema muto (dall’alba alla notte come Berlino, sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann), con le inquadrature dall’alto, le luci del traffico, la pioggia. Il protagonista è spesso accompagnato solo dalla musica. Forse i giorni sono tutti perfetti (ancora lou Reed con il brano che dà il titolo al film), forse no. Ma al tempo stesso c’è anche la necessità nel suo cinema di un altro viaggio nella città giapponese dopo Tokyo-Ga. Certo, per ritrovare Ozu, ma non solo. Forse è da lì che riparte il suo cinema del passato. Forse lo sguardo sereno di Hirayama è lo stesso, oggi, di quello di Wenders. Che riguarda le bellezza del suo passato, quindi del suo cinema, senza rimpianti. Si, a Tokyo ci si vuole perdere proprio come nel confine tra Messico e Stati Uniti di Paris, Texas. Non ci sono risvegli, solo incontri. Alcuni sono con le stesse persone come il giovane che lavora con lui e lo vuole coinvolgere nella sua caotica vita sentimentale. Altri sono invece casuali. A sei anni da Submergence, il suo ultimo titolo di finzione, Wenders torna con un film dove dentro c’è tutto il suo cinema migliore che scopre i luoghi attraverso i suoi personaggi, si sofferma sulle prospettive della città. Come nel caso di Kaurismäki, è un cinema fatto di attese, di estasi della lentezza, di rivelazioni in un percorso che può essere simile a se stesso e invece scopre ogni volta qualcosa di nuovo. Se negli ultimi anni il cinema di Wenders ci aveva emozionato solo in alcuni momenti, stavolta in Perfect Days lo ha fatto per tutto il film. E anche adesso continua a starci in testa e non ce ne vogliamo liberare.