Prima danza, poi pensa - Scoprendo Beckett

prima danza poi pensa scoprendo beckett trailer e uscita italiana del biopic di james marsh al cinema dal 1 febbraio 3

Titolo originale: Dance first

Il film prende il suo titolo da un verso dell’opera più famosa di Samuel Beckett, Aspettando Godot. “Forse potrebbe prima ballare e poi pensare”, dice il vagabondo Estragon dello schiavo di Pozzo Lucky, che poi procede a fare entrambe le cose in un tipico modo assurdista beckettiano. La cupa visione del mondo dello scrittore irlandese, l’immagine profondamente pessimista della condizione dell’uomo nell’odierna civiltà, viene spesso volgarizzata o ridicolizzata in commedie slapstick e sciocchezze varie, ma non lo si può dire del raffinato film di James Marsh, un altro suo film biografico dopo La teoria del tutto (2014) sul fisico Stephen Hawking. Il lavoro di Beckett riguarda principalmente l’inazione, riproponendo con evidenza via via più scarnificata, fino agli estremi del silenzio e della pura raffigurazione mimica, i temi fondamentali della sua ricerca: l’orribile solitudine dell’uomo contemporaneo e la sua paradossale resistenza all’oscuro destino d’annientamento che lo sovrasta. “Non succede nulla, è un capolavoro”, si meraviglia un produttore della BBC. Tuttavia, scrivere come professione non è molto cinematografico, quindi Marsh riformula il mago del minimalismo come un uomo d’azione, un amante e un combattente della Resistenza francese, ignorando per lo più l’atto della composizione e non dicendo quasi nulla sull’opera stessa. Il film si apre a Stoccolma, dove Beckett, vestito in modo formale, riceve il Premio Nobel per la letteratura nel 1969. “Che catastrofe!”, borbotta alla moglie Suzanne, anche se quel commento in realtà era di lei, e Beckett non era comunque presente alla cerimonia. E’ una licenza poetica o un atto di surrealismo? Quello che succede subito dopo è sicuramente all’avanguardia, ma forse non in senso beckettiano. Invece di fare un discorso, il vincitore strappa l’assegno dalle mani del re di Svezia e poi, come Quasimodo, sale una scala lungo le pareti del palco prima di uscire attraverso l’impianto di illuminazione in quella che sembra essere una cava abbandonata dove  si siede con il suo doppelganger per discutere su come spendere i soldi del premio. “Sai che questo sarà un viaggio attraverso la tua vergogna?”, dice l’Altro Beckett, che indossa la giacca di tweed e il maglione a collo alto caratteristici dello scrittore. Da qui in poi, il film procede con una serie di flashback, tracciando con acume le origini della disperazione esistenziale dello scrittore. Il momento simbolico, epifanico, il “Rosebud” del giovane Beckett, è un viaggio con gli aquiloni nella brughiera di Dublino con il suo affezionato padre. Purtroppo, l’infanzia vissuta all’interno della classe media protestante è rovinata da una madre prepotente e narcisista, dalla quale infine fugge in Francia. A Parigi, l’apprendista scrittore subisce il fascino intellettuale di un James Joyce magnificamente raffigurato come un predatore dagli occhi scintillanti. Joyce lo spinge a corteggiare la figlia mezza pazza Lucia, forse perché vuole sbarazzarsi del  peso di lei. L’intreccio con la famiglia Joyce (c’è anche una moglie e madre dalla lingua molto tagliente), che finisce con una delusione e un rifiuto, è una delle cose migliori del film, e Marsh sembra suggerire che rappresenti la chiave del minimalismo artistico di Beckett, terrorizzato dal gigantismo e dalla natura larger than life del collega già celebre (all’epoca, Joyce stava curando l’edizione di Finnegan’s Wake). Gli altri momenti epifanici della successiva biografia dello scrittore sono rappresentati dalla tensione che si instaura tra marito e moglie quando lei scopre che lui la sta tradendo con la produttrice della BBC Barbara Bray, sua amante per un lungo periodo di tempo, tensione che è vista come lo spunto per l’opera teatrale del 1961 Play (alla prima, le due donne della sua vita si trovano per un momento goffamente faccia a faccia), e, soprattutto, il dialogo successivo tra moglie e marito: “Tu ed io, Sam, non siamo fatti per la vittoria. Dobbiamo combattere. Ritiriamoci dunque dalla vittoria. Per favore, non lasciarci vincere!”. Questo dialogo conciso e decisivo è esaltato dall’elegante chiaroscuro della fotografia di Antonio Paladino. Alla fine, anche grazie all’interpretazione implosiva e misurata di Gabriel Byrne, emerge bene dal film l’immagine più autentica di Beckett, lo scrittore di successo che si aggrappa disperatamente al proprio imperativo di fallimento, espresso in modo così memorabile nel racconto del 1983 Worstward Ho: “Mai provato. Mai fallito. Non importa. Riprova. Fallisci di nuovo. Fallisci meglio”.

Alberto Morsiani