Tatami

Tatami 3

Titolo originale: Id.

Analogamente ai melodrammi sulla boxe della Hollywood classica, questo grande film si concentra sullo sport non così popolare dello judo, collocandolo però in un contesto politico e sociale assai più ampio. L’israeliano Guy Nattiv e l’iraniana Zahra Emir Ebrahimi orchestrano infatti un dialogo molto realistico e appassionante tra la tensione della competizione mondiale di judo in Georgia, ripresa magnificamente nei toni freddi ma profondi del bianco e nero, e le questioni relative alla politica e alla giustizia sociale. Affascinante dall’inizio alla fine, il film ci tiene col fiato sospeso, pronti a entrare anche noi sul tatami per combattere al fianco di Leila, una sorta di amazzone moderna, che viene disarcionata da cavallo ma continua a lottare nonostante tutto, senza armatura. La sua allenatrice Maryam (interpretata dalla stessa regista Ebrahimi) è un personaggio più ambiguo ma non per questo meno intrigante, afflitta com’è dal peso delle decisioni passate che gravano ancora pesantemente sul suo presente. Combattuta tra il rispetto delle regole per paura delle conseguenze di un’eventuale disobbedienza e una sete di libertà che non ha (ancora) il coraggio di esigere, Maryam vive attraverso Leila, l’atleta che allena, una lotta che lei stessa avrebbe voluto combattere. Le due donne sono guerriere solitarie che combattono un sistema da cui vorrebbero sfuggire, eroine incredibilmente umane che si battono per difendere valori che sono visceralmente importanti per loro. L’imponente presenza fisica di Leila domina gli incontri di judo del film, microcosmi fatti di prese, proiezioni, slanci e prese di strangolamento, dove l’unica differenza che conta è quanto sei brava a combattere. Le telecamere seguono da vicino con un approccio crudo ma sofisticato il corpo indomabile, ferito ma mai sconfitto di Leila, un corpo che si trasforma in un’arma con cui affrontare le paure della protagonista e un intero regime politico che pretende il suo ritiro dalla competizione per evitare di incontrare in finale una rivale israeliana. Le protagoniste del film, come in un noir, sono tagliate fuori dal mondo esterno, intrappolate in un labirinto di corridoi semibui, uffici e palestre dove si allenano con rigore militare. Sono questi spazi claustrofobici e confortanti, e il commento del giornalista sportivo che prende il posto della colonna sonora, che conferiscono al film la sua qualità stupendamente cruda e livida. Proprio come nel più bel melodramma noir sulla boxe mai girato, “Stasera ho vinto anch’io” (1949), anch’esso basato su un incontro dal verdetto “truccato” cui l’antieroe protagonista si ribella. Come quello, “Tatami” è un film coraggioso ed esteticamente potente, che non cade nella trappola di un happy end trionfalistico, optando invece per un finale ambiguo che lascia cicatrici indelebili.

Alberto Morsiani