Anselm

018 ANSELM

Titolo originale: Id.

Entrambi sono nati nel 1945 in Germania, entrambi sono star internazionali nei rispettivi ambiti professionali, in più sono grandi amici. Tra l’altro, Wenders ha confessato in una intervista che all’inizio era più attratto dalle arti visive che dal cinema: “Mi viene una fitta al cuore ogni volta che vedo una tela bianca, non al cinema, ma nello studio di un pittore”. Non stupisce dunque che abbia dedicato un film ad Anselm Kiefer, un creatore monumentale il cui lavoro corre sul filo sottile che separa l’invocazione del caos e la necessità di un ordine (nel film lo vediamo proprio tenersi in equilibrio su un filo). Un prodigio con penna e pennello in tenera età, il lavoro di Kiefer ora è davvero gigantesco, come si osserva nella crescita dei suoi studi, dalla camera da letto al fienile al magazzino e ora un intero complesso di 200 acri nel sud della Francia. Warhol usava una fabbrica: Kiefer, lo seguiamo mentre gira in bicicletta nel suo enorme atelier, ne ha altrettanto bisogno (in queste sequenze, Wenders soddisfa il suo viscerale amore per i lunghi piani sequenza che percorrono corridoi e viali). Sono due le aree di Kiefer che affascinano il regista. C’è l’interesse per il suo metodo di lavoro, catturato nel film nel modo in cui raccoglie e dà forma a materiali improbabili, schizzando metallo fuso e bruciando erba infangata sulle tele, indurendo i vestiti in modo che facciano rumore a terra quando li lancia da una gigantesca scala di metallo, spalmando vernice su un coltello da pittore delle dimensioni di una sciabola su schizzi delicatamente ombreggiati delle dimensioni di una casa. C’è poi il fascino per la filosofia dell’artista, che poggia su pensatori e poeti che puntualmente appaiono nel film (Heidegger, Bachmann, Celan, Hölderlin…) e che lo ha portato ad affrontare critiche ricorrenti per i suoi tentativi di strappare millenni di storia tedesca alla perversione dei nazisti, rifiutandosi di lasciare che i suoi connazionali seppellissero la propria complicità nei crimini del Reich. Il suo straordinario progetto fotografico “Occupation”, una serie di autoritratti di lui vestito con l’uniforme della Wehrmacht di suo padre, mentre esegue il saluto Sieg Heil con il polso debole in tutta Europa, resta potente e provocatorio oggi come lo era nel 1969. Sotto l’occhio attento di Wenders si dimostra che esso fa parte del catalogo dell’artista quanto le sue moderne, più familiari, più epiche costruzioni in cemento, esse stesse evocative degli edifici bombardati della guerra. Le domande sull’identità tedesca ossessionano entrambi gli artisti, cresciuti tra le macerie del Reich, e grazie alla rappresentazione impressionistica del lavoro di Kiefer Wenders, che per tre anni ha osservato il suo lavoro, arriva a una comprensione più profonda della fusione tra mezzo e musa ispiratrice di quanto abbia fatto nel 2010 Sophie Fiennes nel suo documentario intrigante e onirico dedicato alla costruzione da parte di Kiefer del suo complesso Eschaton, “Over Your Cities Grass Will Grow”. Le ansie opprimenti suscitate dalle opere di Kiefer si dissolvono rapidamente quando la macchina fotografica ipnotica di Franz Lustig, in immagini scintillanti e meditative, si avvicina alla sua arte in dettaglio per catturare la fisicità dei dipinti con la loro sottile capacità di irritare chi li osserva. E’ piuttosto la vita personale di Kiefer a rimanere quasi assente nel film: è solo dai titoli di coda che apprendiamo che il Kiefer più giovane di diverse scene ricostruite è in realtà il figlio adulto dell’artista, Daniel.

 Alberto Morsiani