Il Cielo brucia

6 04 16

Titolo originale: Roter Himmel

ORSO D'ARGENTO MIGLIOR REGIA BERLINO 2023

Due amici vanno a trascorrere alcuni giorni al mare, sulla costa baltica. Ma non si tratta semplicemente di una vacanza. Leon deve terminare il manoscritto del suo secondo romanzo, su cui ha parecchi problemi. Felix, invece, deve lavorare al suo portfolio d’arte. Ma le cose non vanno esattamente secondo i piani. L’auto si guasta qualche chilometro prima dell’arrivo. E quando giungono finalmente alla casa di famiglia di Felix, si rendono conto che c’è un’altra ospite imprevista, Nadja. Per di più, l’area è minacciata da una serie di incendi. C’è qualcosa di diverso in Il cielo brucia rispetto ai film precedenti di Christian Petzold. Sì, la presenza di Paula Beer stabilisce immediatamente una linea di continuità con Undine. Anche qui ci muoviamo tra le contorte evoluzioni dell’amore, in una storia che tende a forzare i contorni della realtà, per far appello all’immaginazione e i simboli, e così raccontare il potere trasformativo del femminile. La dimensione fantastica qua è meno accentuata, ma la foresta in fiamme e la casa nel bosco sono pur sempre delle suggestioni astratte. E poi c’è, ancora una volta, la presenza fondamentale della scrittura, da cui Petzold fa partire una riflessione sui rapporti tra la vita e la sua rappresentazione (esemplare la discussione sulla “mancanza d’amore” in Heine). Eppure resta il fatto che, per gran parte del tempo, si muove su toni piuttosto diversi da quelli soliti del suo cinema, su una cifra più ironica, di divertimento, a cui contribuisce non poco l’interpretazione di Thomas Schubert, che regala al personaggio di Leon una fisicità impacciata, a tratti irresistibile. Su di lui, per tutta la prima parte del film, Petzold sembra costruire una specie di commedia sentimentale. Leon è goffo, permaloso, incapace di gestire le cose e le situazioni, di relazionarsi con l’altro sesso, fino a manifestazioni conflittuali piuttosto infantili. Insomma, quasi un personaggio maschile alla Hawks, tanto più che ha un rapporto “complicato” con il sonno, un po’ come Cary Grant in Ero uno sposo di guerra o Rock Hudson in Lo sport preferito dall’uomo. Certo, Petzold non ha quei ritmi travolgenti, rimane sempre più compassato, alla ricerca di uno scavo più profondo nella trama delle relazioni. Tutta la parabola disegnata da Petzold si rivela un percorso di educazione sentimentale e di rieducazione alla vita. Che deve passare necessariamente per il travaglio del negativo, per il picco di discesa. Per la crisi, il dolore, la perdita. Per quell’istante in cui tutto ciò che sta intorno, prende fuoco e si trasforma in cenere. Ma, anche nel mostrare il dramma, Petzold non diventa mai tragico. Mantiene una levità, che passa prima di tutto negli sguardi, negli atteggiamenti, nel linguaggio dei corpi. E poi, solo poi, nell’esternazioni più evidenti e nelle parole. La scrittura di Leon riprende corpo e sangue, nel tornare alla vita. Mentre quella di Petzold si trattiene, rimane un passo indietro. Lasciando che le cose parlino da sé, tra i silenzi, i pianti e i sorrisi.