Il maestro giardiniere

maestro giardiniere 4

Titolo originale: Master gardener

Cresciuto in una famiglia di rigida fede calvinista, Schrader è un autore eterodosso, fortemente originale, a partire dall’ammirazione per Bresson e il cinema “trascendente”, cui dedicò un libro. I suoi sono film noir incentrati su parabole morali; i suoi personaggi tipici viaggiano dalla corruzione alla purezza, anelano una qualche forma di redenzione. Il prototipo è il Travis Bickle di “Taxi Driver”, che Schrader scrisse per Scorsese. Il giardiniere Narvel Roth del titolo segue le orme tracciate dai personaggi dei precedenti film di Schrader. In particolare, dopo “First Reformed” e “Il collezionista di carte”, i due più recenti, forma una sorta di trilogia sulle fragilità e contraddizioni del maschio contemporaneo, un trittico che è in grado di scavare tra sentimenti complessi come l’amore e l’odio, non limitandosi a una semplice messa in scena che li definisca ma puntando invece ad una rappresentazione dell’emozione che scaturisce dalla purezza e dalla forza dell’immagine. Narvel veste i panni di un uomo che nasconde dietro la propria apparenza mite e quieta un profondo tormento identitario. Questo malessere esistenziale, figlio di una serie di crisi irrisolte, viene tenuto a bada con il giardinaggio, un’arte che nel corso degli anni lo ha plasmato e trasformato. Nei Gracewood Gardens gestiti dalla vedova Haverhill, Narvel lavora ogni giorno con cura, esperienza e dedizione. Con l’entrata in scena di Maya, la pronipote della Haverhill, alla quale Narvel riluttante deve insegnare i rudimenti del mestiere, ecco però che i fantasmi del passato riaffiorano e portano l’uomo a doversi confrontare con se stesso e i propri drammi. Come quasi sempre in Schrader, il protagonista è un uomo solo, separato dalla comunità, chiuso qui nella piccola dépendance dei giardini: un isolamento figurato che rimanda alla sua necessità di un distacco sia materiale sia soprattutto psicologico, un modo di esorcizzare i ricordi dolorosi. All’inizio il tempo pare quasi cristallizzato: il presente procede armonico e tranquillo, con Narvel che metodicamente annota gli appunti sulle sue giornate in cui riassume una quotidianità fatta di fiori, di istruzioni per i sottoposti e di fugaci incontri con la padrona; il passato sembra non essere mai esistito. Naturalmente, si tratta di un idillio temporaneo, di una sospensione precaria e provvisoria: ben presto, il Reale fa la sua irruzione violenta a scompaginare tutto. Per quanto il film, insieme ai due precedenti, componga una riflessione sulla crisi del maschio contemporaneo, la direzione questa volta è leggermente diversa: Schrader evita la liberazione violenta del giocatore di “Il collezionista di carte” ed anche l’angoscia nichilista del prete di “First Reformed”. Stavolta, il focus è piuttosto sulla coltivazione (in senso letterale e metaforico) di un rapporto da ritrovare con l’Alterità; sulla necessità di un avvicinamento, di una condivisione, del ritorno a sensazioni umane troppo umane di confronto, conforto, vicinanza, non più sull’inevitabilità del deperimento e del crollo. Da questo punto di vista, la metafora arborea e floreale del giardino è ad esempio ideale per descrivere la relazione complessa tra Narvel e Maya, un rapporto che con il tempo potrebbe sbocciare ma che necessita di un periodo di coltivazione, durante il quale ci sono duplicità e tensioni in entrambe le direzioni, detti e non detti, errori che riaffiorano e traumi che si instaurano.
Alberto Morsiani