Il male non esiste

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Titolo originale: Aku wa sonzai shinai

LEONE D'ARGENTO ALLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2023 

Il piano sequenza di quattro minuti che apre il film, con la macchina da presa che carrella elegante inquadrando dal basso in alto i rami degli alberi di un bosco in pieno inverno, comunica già il senso del film. Questi quattro minuti, scopriamo con uno stacco improvviso di montaggio, sono la soggettiva dello sguardo di una bambina che guarda all’ insù. Hamaguchi, premio Oscar 2022 per “Drive My Car”, lascia qui le nevrosi metropolitane per immergersi in un Giappone di campagna, un mondo rurale ancorato ai ritmi e alle risorse della natura, dove la vita umana è precaria ma “sana”. Naturalmente la città non rinuncia a inglobare anche questo mondo atavico progettando un piano turistico volgarmente affaristico, dal nome ridicolo di “glamping”, contrazione delle parole “glamour” e “camping”. L’assemblea cittadina si oppone. Il suo leader è Takumi, uomo dei boschi, premoderno, che in una magnifica sequenza all’inizio vediamo percorrere il bosco tenendo per mano la figlioletta Hana, insegnandole a riconoscere le varie specie di alberi e la cultura silvestre. Hana è un personaggio enigmatico i cui occhi sono anche, come si è visto, il nostro primo ingresso nella riserva naturale. Una bambina che continua a vagare per i boschi e le strade in cui i bambini possono (fino a quando?) ancora giocare senza supervisione, almeno fino all’arrivo degli uomini di città. Nel bosco, però, padre e figlia si imbattono nella carcassa di un cerbiatto ucciso da un cacciatore: un monito e una anticipazione di ciò che sta per (potrebbe) accadere alla comunità. Takumi lo vediamo all’inizio mentre taglia i rami degli alberi facendone dei ceppi, mentre preleva taniche di acqua pura dalla sorgente, mentre raccoglie foglie di wasabi selvatico per farne condimento dei cibi. Anche lui dunque si appropria delle risorse naturali del luogo, ma il suo è un prelievo ancora sostenibile, che non mette in crisi l’equilibrio ecologico. Takumi impersona, nel film, il sapere ancestrale della tradizione, la cultura nativa, in un certo senso lo “spirito” eterno dell’intero Giappone. Uno spirito messo in pericolo dal mondo metropolitano. Non a caso, la società incaricata della promozione del progetto di glamping è una società dello spettacolo, che realizza serie televisive. I due funzionari inviati a convincere i locali vanno in crisi, al punto che uno dei due, Takahashi, decide addirittura di trasferirsi tra i boschi, di diventarne il custode. Il mondo che lo ha inviato lì è efficacemente rappresentato da un collegamento via skype tra gli impiegati e l’imprenditore affarista e cinico che li ha ingaggiati. Alla dimensione chiusa della metropoli, che sembra esistere soltanto in un claustrofobico schermo del pc, si contrappongono i grandi spazi naturali percorsi da una macchina da presa che sembra voler diventare un tutt’uno con la natura, comunicando un senso straordinario di armonia e organicità. Piani sequenza di enorme eleganza, accompagnati da un suggestivo commento musicale che ne amplifica la risonanza. Come l’acqua del villaggio che scorre dall’alto verso il basso e che le previste fosse settiche inquinerebbero inesorabilmente, il film di Hamaguchi procede lentamente, prendendosi i suoi tempi, seguendo i ritmi della comunità isolata, e culminando in un imprevedibile finale criptico da non svelare in cui però la violenza è latente in ogni immagine, si è ormai insediata ovunque, dopo che l’uomo moderno ne ha contaminato (in)consapevolmente il ritmo atavico. Il male non esiste? E’ una domanda pleonastica.
Alberto Morsiani